Nasce Par:AnoIA, wikileaks Anonymous.

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DA IL FATTO QUOTIDIANO | 25 LUGLIO 2012

Formato dei dati accessibile.

“”A monte dello strappo con il sito di Assange ci sarebbe l’insofferenza dei ‘pirati’ nei confronti delle lungaggini a cui è sottoposta la pubblicazione dei dati sottratti su Internet. Sulla homepage tutti gli strumenti per consentire ai visitatori di sfruttare i materiali pubblicati

Nasce Par:AnoIA, wikileaks Anonymous. Formato dei dati accessibile

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wikileaks Anonymous

Il sodalizio tra il gruppo hacker di Anonymous e Wikileaks sembra essere arrivato al capolinea e gli hacktivist ora puntano tutto sul loro sito, “Par:AnoIA“. L’acronimo sta per Potentially Alarming Research: Anonymous Intelligence Agency, ovvero “Informazioni Potenzialmente allarmanti: Agenzia di Intelligence Anonima”. A creare tensioni tra gli attivisti e il sito creato da Julian Assange sono le diverse opinioni in merito ai metodi per trattare la diffusione dei leaks (fughe di notizie, ndr) sul web.

D’altra parte le filosofie che ispirano Wikileaks e Anonymous sono diverse fin dalle origini. In primo luogo perché i ragazzi di Assange hanno da sempre puntato sulla collaborazione di “talpe” interne a società e organizzazioni governative, mentre gli hacker recuperano il loro materiale attraverso la violazione di server e computer, pubblicando il materiale “grezzo” direttamente sui circuiti Torrent o su siti Internet. Ma anche lo stile nello “stare in campo” è ben differente: Anonymous può contare sulla clandestinità mentre Wikileaks, come dimostrato dalle vicende giudiziarie che hanno interessato il suo fondatore, è un bersaglio facile per le azioni giudiziarie. A monte dello strappo ci sarebbe l’insofferenza degli Anonymous nei confronti delle lungaggini a cui è sottoposta la pubblicazione dei dati sottratti su Internet. Da qui la decisione di affidarsi a Par:ANoIA. Il sito, inaugurato il marzo scorso, dovrebbe rappresentare il punto di accesso a tutti i dati “recuperati” dalla rete di Anonymous, che verranno pubblicati in un formato accessibile e di facile consultazione allo scopo di consentire una maggiore diffusione delle informazioni trafugate. Negli scorsi mesi, infatti, le imprese di Anonymous hanno trovato largo spazio nei media, ma il contenuto dei materiali pubblicati è stato quasi ignorato. Un membro di Anonymous ha spiegato il senso dell’operazione nel corso di una chat con un giornalista di Wired Usa: “Il motivo per cui le persone non si interessano alle informazioni pubblicate è che non sanno come utilizzarle. In pratica stiamo cercando di renderle accessibili a chiunque voglia farne qualcosa”.

Le pubblicazioni sul sito sono cominciate solo da pochi giorni e il materiale, per adesso, è ancora poco: un database delle email sottratte a HBGary, società di sicurezza informatica che collabora col governo statunitense, le trascrizioni della celebre intercettazione telefonica tra Fbi e polizia inglese per combattere il gruppo di pirati informatici e altro materiale, tra cui le attività di controllo sul web da parte del governo australiano e le tecniche di disinformazione applicate nei forum Internet. L’homepage, però, contiene tutti gli strumenti per consentire ai visitatori di sfruttare i materiali pubblicati, a partire da un motore di ricerca per parole chiave a un indirizzo email dedicato alla stampa, in cui viene fornita anche la chiave pubblica per crittografare i messaggi. Non manca, infine, un collegamento attraverso il quale è possibile fare donazioni per sostenere il progetto. La valuta adottata è il bitcoin, il denaro virtuale sempre più utilizzato per le compravendite online. Anche se tra Wikileaks e gli hacktivist non è ancora divorzio, dai botta e risposta comparsi su Twitter negli ultimi giorni è evidente che i rapporti sono per lo meno tesi. Il team di Wikileaks, in un tweet di metà luglio, ha accusato Anonymous di “dilettantismo”, puntando il dito contro l’utilizzo di alcuni strumenti di comunicazione che metterebbero a rischio l’anonimato di chi procura il materiale pubblicato. La comunità hacker, però, non chiude la porta alla collaborazione. “Wikileaks ci ha contattati e sarà interessante sentire cosa hanno da dire”.””

 

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Sorpresa: la pirateria non arriva (solo) da Internet

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Da Il Fatto Quotidiano: di  | 31 luglio 2012

Sorpresa: la pirateria non arriva (solo) da Internet

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“Da più di 10 anni, più o meno dalla nascita di Napster, ci sorbiamo i piagnistei di produttori discografici e cinematografici riguardo il terribile fenomeno della pirateria online. Gli uffici stampa delle associazioni di categoria ci hanno inondati di dati catastrofici, che condannano senza attenuanti i fan del p2p. Sono loro, i fantomatici ragazzini dal download facile, la causa prima dei cali di vendite e profitti di artisti e major. I dati riportati periodicamente erano dettagliatissimi: riportavano cifre, stime e analisi approfondite sul fenomeno. Le conclusioni erano incontestabili. A sentire i talebani del copyright, la Rete è letteralmente infestata di server pirata, computer dedicati allo scambio dei file e network illegali che hanno sgretolato, in una manciata di anni, il business della musica e dei film. La crociata della Riaa, l’associazione dei discografici americani, e soci ha trovato terreno fertile nelle aule di giustizia e nei parlamenti di tutto il mondo, indicando uno e un solo colpevole: Internet.

Curiosamente tutte queste ricerche trascuravano di affrontare un dato. Un dato che nessuno, per la verità, si è mai preoccupato di considerare seriamente.  Almeno fino a quando una presentazione PowerPoint interna alla stessa Riaa non è “scivolata” sul Web ed è finita tra le mani di TorrentFreak, un blog dedicato al tema del file sharing. Il dato che nessuno ha mai considerato riguarda la quantità di copie pirata effettivamente generate dal file sharing. Ed ecco la sorpresa: secondo i dati in possesso della stessa Riaa, questo valore è di appena il 30%.

I dati si riferiscono agli Stati Uniti e indicano che su 100 mp3 in circolazione, 35 sono stati acquistati legalmente. Delle rimanenti 65 “copie pirata”, 27 sono state copiate direttamente dal CD, 19 scambiando fisicamente i file da un disco all’altro e soltanto 15 provengono dal peer to peer. Ancora meno sono quelli scaricati da siti come MegaUpload: solamente 4. Questa informazione, assente in tutti gli studi pubblicati e diffusi in più di dieci anni, nessuno si è mai sognato di chiederla. E come dargli torto? Ammettiamolo: eravamo tutti sinceramente convinti che Internet fosse il vero colpevole.

Nessuno quindi si stupiva più di tanto che per i pirati telematici venissero chieste pene esemplari. L’accanimento nei confronti di chi utilizza il p2p per condividere musica era giustificato con l’idea che ogni singolo “comportamento criminale” innescasse un circolo vizioso in cui i brani copiati e diffusi online finivano per raggiungere milioni di persone provocando danni spaventosi al business dell’intrattenimento. Come nel caso di Jammie Thomas-Rasse, accusata di aver scaricato 24 canzoni e condannata a pagare per questo suo crimine 1,5 milioni di dollari (poi ridotti a 54.000) come risarcimento ai poveri discografici defraudati dei loro guadagni.

Ora invece scopriamo che i maggiori responsabili di questa presunta catastrofe sono quegli scambi tra amici (bello questo cd, me lo presti?) a cui abbiamo già assistito per decenni. Qualcuno ricorda i primi registratori con doppia cassetta che permettevano la duplicazione? Lo scambio “fisico” dei file su una chiavetta usb non è molto diverso, al massimo un po’ più rapido.

E adesso? La prima conseguenza è un crollo verticale della credibilità delle associazioni di categoria. A pensar male, infatti, si potrebbe ipotizzare che di questo “dettaglio” fossero a conoscenza da sempre e abbiano preferito ometterlo (nasconderlo) nelle comunicazioni ufficiali. D’altra parte è quello che è accaduto anche nel comunicato stampa relativo allo studio di cui sopra, in cui si accenna a dati che nulla dicono sulla reale incidenza di Internet sul fenomeno della pirateria. La seconda conseguenza è la perdita di credibilità di chi ancora sostiene periodicamente le impresentabili leggi-bavaglio (Sopa, Pipa, Acta, Cispa, etc.) per la tutela del diritto d’autore. Ora che sappiamo il reale impatto di Internet, quale governo avrà ancora il coraggio di mettere la faccia in operazioni che minaccino di sacrificare la libertà d’informazione online sull’altare dei profitti delle major?”

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Internet, la dipendenza è patologia

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Da Il Fatto Quotidiano: di | 12   ottobre 2012

L’American Psychiatric Association inserirà nel prossimo aggiornamento del manuale di diagnosi e cura delle malattie mentali anche i comportamenti distorti legati all’utilizzo del web. Il fenomeno, tipicamente maschile, colpisce in modo particolare giovani dagli 11 ai 23 anni.

Siete più interessati a quello che succede in rete, rispetto a quello che vi circonda? Andate nel panico se non avete una connessione con cui navigare? Forse siete affetti da “disordini psichiatrici legati all’abuso di internet”. Una vera e propria patologia che è stata ufficialmente inserita nel prossimo aggiornamento del manuale di diagnosi e cura delle malattie mentali, il “Diagnostic and statical Manual of Mental disorders”. La nuova edizione sarà disponibile solo a partire dal mese di maggio del prossimo anno e per la prima volta nella storia riconoscerà la dipendenza da internet come una vera e propria patologia. Il documento, redatto per la prima volta nel 1952 dall’American Psychiatric Association, ha ricevuto nella sua storia solo quattro corposi aggiornamenti di cui l’ultimo risale a 12 anni fa. Una situazione che getta ulteriore luce sulla scelta di inserire l’abuso della rete tra le patologie a cui si cerca di porre rimedio. Un fenomeno che, anche se in modo non-ufficiale fino ad oggi, è stato più volte riconosciuto e affrontato a partire dalla definizione dello Iad– Internet addiction disorder dello pischiatra americano Ivan Goldberg che risale al 1995.

Secondo la definizione sono sette i principali sintomi caratteristici di un disturbo legato all’utilizzo di internet: il bisogno di trascorrere tempo online per ottenere soddisfazioni personali, mancanza di interesse per la realtà, ansia e depressione nel caso in cui non si abbia accesso alla rete, l’impossibilità di smettere di tenere sotto controllo gli eventi del web, necessità di ricorrere alla rete con più frequenza rispetto alle solite abitudini, il passare molto tempo connessi e utilizzare internet nonostante evidenti problemi fisici, lavorativi e sociali. Fino a questo momento le principali patologie legate all’utilizzo smodato di internet erano spesso legate ad attività ben precise tra cui la pornografia online o il gioco d’azzardo. In questo caso invece ad essere considerato patologico può essere semplicemente un utilizzo spasmodico di tutta la rete e non solo di una certa categoria mirata. Nonostante questo vengono individuati 5 profili a seconda della dipendenza: cyber-sexual addiction (legato alla pornografia), net-compulsion (gioco d’azzardo e shopping), information overload (ricerca spasmodica di informazioni), cyber-relation addiction (abuso di social network) e computer addiction (utilizzo eccessivo di giochi online).

Il fenomeno non ha risparmiato anche l’Italia che ha visto il Policlinico Gemelli vero pioniere nella cura di questi disturbi. Nel novembre del 2009 il Centro di Consultazione psichiatrica diretto da Pietro Bria ha infatti aperto un ambulatorio per la cura delle patologie legate alla dipendenza da internet grazie alla collaborazione dell’associazione “La Promessa”. “L’utilizzo patologico di internet – aveva commentato lo psichiatra Federico Tonioni – provoca sintomi fisici molto simili a quelli manifestati da tossicomani in crisi di astinenza. Grazie a questo nuovo ambulatorio potremo garantire ai nostri pazienti di contenere quel malessere che per molti durante l’astinenza dal web si trasforma in ansia, depressione e paura di perdere il controllo di ciò che accade in internet, intervenendo nella struttura mentale sottostante alla dipendenza con curiosità e umiltà”. Un fenomeno che in modo particolare colpisce le nuove generazioni: stando ai dati del Gemelli quasi l’80% sono bambini e ragazzi tra 11 e 23 anni con una certa percentuale anche per gli over 30. Fenomeno quasi tipicamente maschile con percentuali che sfiorano il 90% e casi che evidenziano un uso delle rete fino a 18-20 ore consecutive. Dalla sua apertura, l’ambulatorio del Policlinico Gemelli ha assistito ad una vera e propria invasione con oltre 200 casi in meno di un anno e mezzo.”

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Internet, la dipendenza è patologia

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Internet, movimento wireless libero per tutti.

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Da Il Fatto Quotidiano: di Elio Cogno | 6 novembre 2012

Internet, nasce il movimento per il wireless libero per tutti
L’Open Wireless Movement mira a creare una diversa concezione dell’accesso alla rete e si avvale della collaborazione di tecnici per studiare nuove tecnologie che permettano di condividere l’accesso pur mantenendo privacy e qualità del servizio. Non più password e connessioni private o condivise tra pochi prescelti

Si chiama Open Wireless Movement (https://openwireless.org) e, in pieno fermento elettorale statunitense, è un movimento che cerca di porsi esattamente al centro dei bisogni di una generazione che ha fatto della connessione a internet uno strumento necessario e indispensabile per la vita di tutti i giorni. In quest’ottica, il movimento appoggiato dalla EFF (Electronic Frontiers Foundation) e da numerose altre associazioni di settore, mira ad un futuro in cui la connessione wireless sarà aperta e onnipresente. Non più password e connessioni private o condivise tra pochi prescelti, ma una situazione in cui in caso di necessità si possa sempre trovare una connessione wireless aperta e gratuita. Un’idea che era già nell’aria da tempo per i tecnici della EFF che più di un anno fa sul loro sito avevano già dibattuto in un articolo sul “Perché abbiamo bisogno di un Open Wireless Movement?”. “Storie come quelle in cui la polizia abbatte la porta di un uomo innocente, colpevole di aver lasciato la sua rete aperta, così come le paure per una rete lenta o per la privacy online, stanno convincendo molte persone a bloccare l’accesso ai loro wifi con una password– è il commento di Peter Eckersley di EFF -. La graduale scomparsa di reti wireless aperte è una tragedia dal punto di vista del bene pubblico, per colpa di un dibattito impreciso legato alla privacy e alla sicurezza. Parte del compito dell’Open Wireless Movement sarà quello di ricordare agli utenti che aprire il loro wifi è un atto di responsabilità sociale e spiegare loro che le persone che lo fanno, potranno godere delle stesse protezioni legali che ci sono per un qualsiasi accesso a internet offerto dai provider privati”.

Il movimento, seppur appoggiato da una fondazione, è del tutto libero da ogni condizionamento di tipo politico ed economico e si avvale dell’aiuto di tecnici, avvocati e aziende. Per poter funzionare al meglio infatti è necessario apportare alcune migliorie alle attuali connessioni a internet, sia dal punto di vista della mentalità con cui viene visto l’accesso ai servizi della rete, sia dal punto di vista tecnico. “Il Movimento Open Wireless – spiegano i promotori – immagina un mondo dove le persone possano avere facile accesso a reti aperte per le connessioni a internet, un mondo in cui si possa condividere la connessione privata pur mantenendo la qualità e la sicurezza. Gran parte di questa “visione” è possibile fin da ora. Già oggi molte persone hanno router con la capacità di ospitare alcuni utenti. Ma per rendere ancora più facile la condivisione, stiamo lavorando con una squadra di ingegneri volontari per costruire tecnologie che permettano agli abbonati internet di condividere la loro connessione pur preservando sicurezza, privacy e qualità del loro servizio”.

Secondo i promotori il movimento, se esteso e utilizzato in modo massiccio, potrebbe portare ad una veloce ingegnerizzazione di numerosi servizi che utilizzerebbero la rete nel migliore dei modi, potendo avere la certezza di una connessione veloce e stabile. Così come non si sarebbe chiesto il permesso alle compagnie telefoniche per usufruire dei loro servizi se fosse esistito un movimento del genere già in precedenza, liberando così frequenze radio e abbattendo l’inquinamento elettromagnetico. Allo stesso tempo le paure legate alla sicurezza e alla privacy verrebbero letteralmente spazzate via: “L’utilizzo di più indirizzi IP – commentano -, spostandosi da una rete wireless ad un’ altra, può rendere più difficile per gli inserzionisti e le aziende di marketing, tener traccia di voi senza sfruttare i cookies. Allo stesso modo anche gli attivisti possono proteggere al meglio le loro comunicazioni anonime utilizzando un wireless aperto”. Rimangono i dubbi, a questo punto, su quanti abbonamenti a pagamento continueranno ad esistere se le connessioni saranno così facilmente accessibili e gratuite. Una diffusione che, alla lunga, potrebbe portare ad una prepotente diminuzione delle reti disponibili.

“Ogni volta che mi trovo a parlare o a scrivere sulla mia configurazione di sicurezza – ha commentato Bruce Schneier, saggista e crittografo esperto in sicurezza informatica – l’unica cosa che sorprende la gente ed è oggetto di un gran numero di critiche, è il fatto che utilizzo una rete wireless casalinga aperta. Non c’è nessuna password. Nessuna codifica. Chiunque con un servizio wireless può vedere la mia rete e può utilizzarla per accedere a internet. Per me è parte di una buona educazione di base. Fornire l’accesso a internet per gli ospiti è un po’ come per il riscaldamento e l’energia elettrica, o una tazza di thé caldo”.

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Europa, sì a ‘emendamento Wikileaks’: transazioni online senza censura

Wikileaks

di | 25 novembre 2012 – Il Fatto Quotidiano

Paypal, Visa e Mastecard avevano bloccato i finanziamenti al sito nel 2010, dopo la pubblicazione di documenti sul governo Usa. Ora sarà l’Unione Europea, grazie alla norma proposta dal Partito Pirata, a dovere definire in quali casi sarà possibile rifiutare i pagamenti.

“Non riusciranno ad imporci il silenzio. La censura economica è comunque censura. E’ sbagliata, soprattutto perché avviene al di fuori della legge”. Aveva tuonato così Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, alla luce della sentenza che lo decretava vincitore nei confronti di Visa, MasterCard, PayPal e i principali circuiti di pagamento, che avevano sospeso i finanziamenti al sito a dicembre 2010 dopo la pubblicazione di migliaia di documenti che riguardavano il Dipartimento di Stato Usa. A distanza di qualche mese anche il Parlamento Europeo ha in qualche modo rinforzato la posizione del giudice di Reykjavík grazie all’approvazione all’unanimità di un emendamento proposto da Christian Engström del Partito Pirata svedese.

La discussione ha coinvolto numerosi europarlamentari, tutti d’accordo sulla necessità di normare e definire alcuni aspetti legati ai pagamenti online attraverso le carte di credito. In quell’occasione Wikileaks si vide bloccare le donazioni attraverso le carte di credito a distanza di poche ore dalla pubblicazione di oltre 250mila cablo diplomatici del governo statunitense. Insomma, un vero “Cablegate”, come venne definito dalla stampa di tutto il mondo, una situazione sicuramente scomoda a molti al punto che i principali circuiti di pagamento decisero per il blocco delle transazioni. Per gli esponenti di Wikileaks il caso venne subito additato come forma di censura, di sottomissione al governo degli Stati Uniti, ma furono in molti a intravedere invece l’enorme potere che un’azione del genere lascia nelle mani delle società di credito. Un aspetto colto e approfondito proprio dal Partito Pirata che ha portato all’approvazione unanime quello che è già stato ridefinito “l’emendamento Wikileaks”.

“Il fatto che i principali intermediari di pagamento che dominano il mercato possano bloccare a loro discrezione imprese e organizzazioni, è un problema che deve essere affrontato – spiega Engström -. È necessario stabilire regole oggettive che definiscano quando il blocco può avere luogo”. Secondo l’europarlamentare “non è ragionevole – ha sottolineato – che queste società possano decidere autonomamente che piccole aziende svedesi non possano acquistare film horror o sex-toys, bloccando così le transazioni online per via di una qualche forma di moralismo”. Proprio come nel precedente con Wikileaks, in cui “non c’era alcun fondamento giuridico, ma piuttosto il tutto deve essere visto come un aiuto delle tre società al governo degli Stati Uniti, con l’intento di mettere a tacere una voce scomoda. Non è accettabile che imprese private abbiano il potere di agire sulla libertà di parola”. L’emendamento ha così chiesto all’Unione Europea di definire in quali casi sarà possibile rifiutare i pagamenti, con la consapevolezza che nel prossimo futuro saranno sempre di più le società che si affideranno alle transazioni bancarie online. Il provvedimento è stato adottato sia dalla Commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori, sia dal Parlamento Europea in seduta plenaria.

Nel dibatto proposto dal Partito Pirata è intervenuto anche l’europarlamentare italiano Sergio Cofferati, che ha commentato: “Il provvedimento del quale stiamo parlando è molto importante ed è altrettanto importante che si sia concentrato sui punti che riguardano la privacy, la sicurezza nei pagamenti e le attività d’informazione per poter avere anche da parte degli utenti le necessarie certezze. Vorrei però insistere su un punto specifico che è quello delle commissioni interbancarie, soprattutto quelle multilaterali. Oggi esistono differenze molto rilevanti tra paese e paese, e in qualche caso addirittura, questi valori sono particolarmente elevati. Questo comporta un primo effetto: la penalizzazione degli utenti e dunque dei consumatori, ma diventa anche un oggettivo impedimento allo sviluppo del mercato. Per questa ragione, io credo sia molto importante auspicare subito ad un’armonizzazione di queste commissioni e poi progressivamente il loro superamento”. Inoltre, conclude Engström, “abbiamo bisogno di più soggetti e più concorrenza nel mercato dei pagamenti. Ma noi politici abbiamo difficoltà nell’influenzare il mercato. Tuttavia – puntualizza – siamo in grado di impostare le regole in modo che i soggetti che dominano le transazioni oggi, non siano in grado di limitare né la libertà di commercio, né la libertà d’espressione a loro esclusiva discrezione”.

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Windows 8 non convince: negli Usa e in Europa crollano le vendite dei pc.

Il 2012 sarà il primo anno dal 2001 in cui si assisterà alla contrazione del mercato dei personal computer, in calo del 21% negli Stati Uniti. A perdere fette di mercato sono stati i notebook, nonostante il crescente numero di novità degli ultimi mesi

Windows 8 non convince: negli Usa e in Europa crollano le vendite dei pc

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Vuoi la crisi economica, vuoi l’interfaccia rivoluzionaria ma Windows 8 non convince i mercati. Almeno rispetto alle previsioni degli analisti alla vigilia del lancio a fine ottobre, il nuovo sistema operativo di casa Microsoft ha deluso le aspettative e, a differenza dei suoi predecessori, non ha trainato la vendita di pc. Solo negli Stati Uniti le vendite hanno infatti registrato un clamoroso -21% rispetto al mese di novembre 2011 e in Europa la situazione è tutt’altro che promettente.

Stando ai dati di Gartner la vendita di pc nell’Europa occidentale ha registrato un -15% nel terzo quarto dell’anno: i dati si riferiscono ad un periodo in cui Windows 8 non aveva ancora visto la luce, ma l’andamento nelle vendite sembra essere confermato anche in questa ultima parte dell’anno. Deutsche Bank ha infatti ridimensionato le stime di vendita nel mercato pc proprio per colpa di un inizio non così spumeggiante del sistema operativo di Microsoft. Anche Topeka Capital Markets conferma l’andamento parlando di “ordini deboli” e comunque ben al di sotto delle stime previste dagli analisti. In attesa degli acquisti natalizi che potrebbero invertire l’andamento delle vendite, tutti, dai vendor agli utenti, non sembrano essere soddisfatti del nuovo sistema operativo di casa Microsoft. Le cause alla base di questo stop nelle vendite possono essere certamente molteplici, in primo luogo la crisi economica, ma è evidente che nel primo mese di disponibilità di Windows 8, le cose non sono andate come si pensava. Secondo gli analisti sarebbe anche l’interfaccia ex-Metro che potrebbe disorientare gli utenti, così come l’avvicinamento tra il mercato tablet e quello pc. In quest’ottica stupiscono ancora i dati di vendita negli Stati Uniti: a perdere maggiormente fette di mercato sono stati infatti i notebook rispetto ai pc fissi, nonostante proprio la prima categoria abbia evidenziato un numero crescente di novità negli ultimi mesi.

Intanto Microsoft ha diramato i dati di vendita nel primo mese di disponibilità del nuovo sistema operativo che si attestano sulle 40 milioni di copie. A stupire, anche in questo caso, sono le affermazioni poco autocelebrative della compagnia che non ha evidenziato se le copie vendute siano state quelle realmente arrivate agli utenti finali o se invece si tratti di quelle distribuite attraverso i circuiti di vendita. Sempre secondo la casa di produzione di Bill Gates, Windows 8 avrebbe coperto il 58% delle richieste di pc, contro l’oltre 86% registrato dalla precedente versione ad un mese dal lancio nel 2009. In quel caso però, sottolineano gli analisti, il sistema operativo andava a coprire un profondo scontento generato da Vista, un terreno spianato che sicuramente non ha trovato Windows 8 dal momento che proprio a settembre la versione Sette era il sistema operativo più utilizzato al mondo con oltre il 44% degli utenti. Non è sicuramente solo colpa di Windows 8 ma i dati non sembrano lasciare spazio ad interpretazioni: il 2012 sarà il primo anno dal 2001 in cui si assisterà alla contrazione del mercato dei pc. La crisi economica globale, abbinata ai costi maggiori dovuti all’utilizzo di schermi touch installati su numerosi tablet-pc, non ha aiutato il lancio di Windows 8. Il futuro di Microsoft, anche dopo il cambio nell’assetto dirigenziale dell’azienda, sembra essere volto al settore mobile più che alla sezione desktop ma i dati delle vendite non sembrano premiare i nuovi pc touchscreen a cui sembrano ancora prevalere o i classici tablet o le “vecchie” postazioni pc fisse.

 

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